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Time in Jazz 2015: "Ali"

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Berchidda e Nord Sardegna
8-16.08.2015

"Ali" era il titolo della ventottesima edizione di Time in Jazz. «Parlando di "Ali" -afferma il direttore artistico Paolo Fresu -il nostro pensiero non poteva non andare all'Icaro di Henry Matisse, raffigurato in una delle venti lastre che compongono il libro "Jazz," che diviene protagonista e musa ispiratrice dell'artista. Un festival leggero e volatile dunque, composto da un'infinità di piccoli tasselli. Nello specifico, il tema di questa edizione viene affrontato in parte grazie a nuovi progetti commissionati ad alcuni degli artisti invitati, in parte ospitando progetti già esistenti e artisti che hanno a che vedere con la "leggerezza" e la "volatilità"».
Un'anticipazione tematica del festival, insolita e con intenti promozionali, la si è avuta già l'8 agosto nelle traversate aerea e marittima per raggiungere l'isola. Nel volo Bologna-Olbia della Meridiana, evento più unico che raro, Fresu si è esibito in solo deambulando lungo la corsia centrale dell'aereo; contemporaneamente nella tratta Livorno-Golfo Aranci della Sardinia Ferries l'affiatato duo Monica Demuru-Natalio Mangalavite su un repertorio di canzoni senza confini ha messo "ali ai piedi," riagganciandosi così al tema della scorsa edizione, i piedi appunto.

Nel corso del festival il tema è stato comunque interpretato con molta libertà dai musicisti, anche in relazione ai diversi luoghi dei concerti. E qui sta una delle caratteristiche fondamentali della manifestazione sarda: la capacità di scovare sempre nuove località naturalistiche o storiche, anche anomale. L'ambientazione ha costituito una presenza imprescindibile, anzi dominante, in molte occasioni.
Ai piedi della maestosa Domus de Janas di Partulesi presso Ittireddu, Enrico Merlin con i capelli al vento ha manovrato con veemenza, quasi violentato, le sue chitarre e le apparecchiature elettroniche, scatenando sonorità ora riverberanti e avvolgenti ora telluriche: sembrava un ancestrale stregone che stesse immolando le vittime sacrificali per ingraziarsi le divinità della natura.
A notte fonda, nel prato compreso fra Santa Maria di Coros e il muro di recinzione del cimitero di Tula, con la complicità di un'efficace illuminazione artificiale, Dan Kinzelman con Gohst, il suo quartetto di fiati, ha usufruito delle condizioni ideali per sprigionare con arguzia i suoi spiritelli benigni.

Nella granitica Piazza della Chiesa di Sant'Antonio di Gallura, due giorni dopo ma di mattina, Kinzelman ha poi duettato con Giovanni Guidi. I due hanno improvvisato su noti temi del pianista, distillando un equilibrato mix fra suadenti linee melodiche, visionari slanci lirici di matrice free, momenti di più decantata ricerca dinamica e timbrica. Ne è risultata una delle performance più intense del festival.
Se Guidi e Kinzelman si possono considerare musicalmente quasi fratelli gemelli, era invece la prima volta che il pianista di Foligno, Luca Aquino e Michele Rabbia si esibivano assieme. Fra i resti del Castello dei Doria a Chiaramonti il flusso continuo della loro improvvisazione ha messo in evidenza tre diverse personalità che comunque si sono incontrate sul terreno della melodia e del ritmo, fra agglomerazioni e distensioni, fra elaborazioni problematiche e spunti accattivanti. Un trio che ha potenzialità di crescita.

Quanto al tema del festival Fresu ha tra l'altro precisato: «...a volte si è cercato di non prendersi troppo sul serio: in un festival sul tema delle "ali" non poteva mancare Paolo... Angeli. Per il suo cognome e anche per la sua musica».
Alla Torre di San Giovanni presso Posada, nel tardo pomeriggio in riva ad un mare piatto, il chitarrista di Palau ha suonato e cantato la sua personale trasfigurazione dell'anima sarda. Due giorni più tardi, nel raccolto chiostro dell'ex convento di Calangianus, Paolo Angeli ha pilotato la Piccola Orchestra Gagarin, completata dal violoncellista israeliano-russo Sasha Agranov e dal batterista catalano Oriol Roca: nella suite "Vostok" i tre, nello loro bianche tute spaziali, hanno intrapreso un nuovo viaggio cosmico fra ironia e improbabili incroci culturali.

Stefano Bollani, vera star di questa edizione, si è esibito su due diversi palcoscenici. Il trio ormai comunemente definito "danese," completato da Jesper Bodilsen e Morten Lund, ha richiamato il pubblico delle grandi occasioni in Piazza del Popolo; proponendo una scaletta abbastanza risaputa, ma affrontata con atteggiamento deciso e propositivo, il concerto ha messo in evidenza un concatenato andamento narrativo, la coesione del trio e le qualità virtuosistiche dei singoli.
Cosa di meglio poi che un solo di Bollani per festeggiare collettivamente la mattina di Ferragosto presso la chiesetta campestre di San Michele? Nel rivisitare brani celebri di diverse parti del mondo il pianista ha messo le ali alle sue mani per condurre le sue incantatorie, arabescate variazioni armoniche e dinamiche. Prima di concludere il concerto con l'immancabile carrellata di brani a richiesta del pubblico, in cui il pianista ha garantito un autentico divertimento, si è verificato l'atteso e congeniale ingresso in scena di Fresu, che ha dato un ulteriore contributo di idee, di swing e di poesia.

A parte questo ed altri fuori programma, erano due gli appuntamenti in cartellone, entrambi duetti, con la presenza di Fresu in veste di musicista, per altro infaticabile a presentare e seguire attentamente ovunque tutti i concerti del festival. La collaborazione non inedita ma recente fra il trombettista e Dino Rubino, che oggi predilige dedicarsi al piano, ha inaugurato i concerti al Centro Laber di Berchidda. Sulla base di temi arcinoti essi hanno dapprima dato forma a situazioni di delicato intimismo, a tratti venato di malinconico fatalismo, per poi inoltrarsi in interpretazioni più mosse, affermative e swinganti, che sarebbe improprio ascrivere strettamente all'ambito mainstream.
Un uso massiccio dell'elettronica ha caratterizzato invece il duo fra Fresu e Nguyên Lê, collaudato sodalizio che abbiamo avuto il piacere di riascoltare dopo molto tempo nell'incantevole ambiente naturale attorno alla chiesetta campestre di San Bachisio di Telti. A momenti di greve concretezza ha fatto riscontro la struggente e aerea leggerezza di un brano come "Fellini" scritto da Fresu o dell'aria "Sì dolce è 'l tormento" di Monteverdi. Se a tratti sono emerse lontane evocazioni della tradizione orientale o di quella sarda, non sono mancati spunti in cui sembrava che in aria aleggiasse lo spirito del Davis elettrico.

La sera precedente il chitarrista franco-vietnamita aveva rivisitato The Dark Side Nine, progetto dedicato al capolavoro dei Pink Floyd, alla testa di un ottetto molto ben assortito. Ognuno con estrema motivazione ed efficienza è rimasto nei ranghi previsti da arrangiamenti stringenti, dando così consistenza ai diversi passaggi di una musica densa e concitata, di grande impatto e dalla prevalente dimensione elettrica.
La serata, la prima sul main stage di Piazza del Popolo a Berchidda, era stata aperta dal collaudato duo Kenny Barron-Dave Holland. Il pianista e il contrabbassista racchiudono nella propria esperienza vari periodi della storia del jazz dagli anni Cinquanta in poi e sono capaci di sintetizzarli e riproporli in chiave personale con una classe e una partecipazione rimaste immutate da anni, compenetrando con equilibrio e rispetto reciproco i rispettivi, pregevolissimi spazi solistici.

Sempre in Piazza del Popolo, con tutte le differenze e i distinguo del caso, assai simili per genere, intenzioni ed esiti sono risultate le esibizioni dei gruppi di Manu Katche, di Vincent Peirani e di Lars Danielsson, non a caso tutti appartenenti alla scuderia ACT Music. Le loro proposte sono apparse accomunate da un sound ampio e pulito, da impianti melodici e narrativi ammiccanti, dai lontani echi folk, da una smaliziata efficienza espositiva da parte dei collettivi e dei singoli, da progressioni ben calibrate e avvincenti. Il tutto era costruito con impeccabile professionalità, grande perizia, attenta cura per i passaggi e i particolari, senza lasciare nulla al caso. A ben vedere le suadenti evoluzioni di questi gruppi hanno dato sostanza a quei concetti di leggerezza e volatilità voluti dal direttore artistico.
Se nel quartetto di Katché si sono distinti il sassofonista Tore Brunborg e Luca Aquino alla tromba, nel quintetto del giovane fisarmonicista francese ha spiccato il sax soprano di Emile Parisien, mentre il nuovo quartetto del non più giovane contrabbassista e violoncellista norvegese si avvaleva della presenza di Magnus Öström alla batteria.
Indubbiamente questo modo europeo di concepire e comunicare il jazz rappresenta una delle principali tendenze dell'attualità. I suoi messaggi sono però fin troppo ottimistici e rassicuranti; i suoi mezzi tecnici, espressivi e poetici si rivelano fin troppo espliciti, nella ricerca del consenso del largo pubblico, che infatti anche in questa occasione si è fatto incondizionatamente coinvolgere.

Un discorso diametralmente opposto si potrebbe fare a proposito dello Special Unit for the Blue Notes condotto dal settantacinquenne Louis Moholo-Moholo, giustamente invitato per rappresentare le "ali della libertà." A differenza che in altre occasioni (Torino 2014), questo omaggio alla scuola dei "sudafricani di Londra" si è imposto partecipato e pulsante, valorizzato da un'amplificazione che ha permesso di cogliere tutte le sfumature. Si è assistito a un rito collettivo, a un free turbolento in cui emergevano in uno sfrangiato unisono i noti, ripetitivi temi innodici. La struttura portante era costituita dal poderoso basso di John Edwards e dal piano di Alexander Hawkins, oltre che dalla propulsiva batteria del leader, mentre la front line, in cui si è distinto il trombonista Alan Tomlinson, ha prodotto formicolanti intrecci e impervie sortite solistiche.
In un concerto pomeridiano, in una suggestiva cornice in vista dell'isola di Tavolara, il batterista ha poi duettato col trentaquattrenne Hawkins. In un flusso continuo, il senso dinamico e perfino i temi, compresi alcuni standard ellingtoniani, sono stati sempre suggeriti da un determinato e inquieto Moholo; suggerimenti che sono stati colti all'istante dal pianoforte percussivo e risonante di Hawkins.
Certo l'approccio tecnico-espressivo e il mondo poetico di Moholo, autentico esponente ed unico superstite di quella scuola, risalgono a circa mezzo secolo fa, ma possono ancora dare esiti trascinanti, connotati dal forte radicamento in una precisa tradizione. Eppure non si può fare a meno di notare che buona parte del pubblico che si è accostato al jazz recentemente dichiara di fare molta fatica ad accettare questo tipo di proposta e anche a farsi coinvolgere emotivamente da essa.

Fatte queste sintetiche considerazioni personali sulla relazione fra attualità, peso specifico e successo di pubblico dei diversi progetti musicali, merita un accenno la festa finale di Ferragosto in una gremita Piazza del Popolo. Animatrice è stata The Rad Trads, una street band statunitense che nei pomeriggi era apparsa un po' canonica e prevedibile nelle strade di Berchidda, ma che salita sul palco, con l'amplificazione e l'aggiunta di basso elettrico e batteria, si è trasformata in una travolgente macchina da spettacolo, imbandendo un cocktail tipicamente americano di Soul, Funk, Folk e R&B.
Ma nella stessa serata sono da segnalare due preziosi cammei non previsti. In apertura il coro Cuncordu e Tenore de Orosei assieme a Fresu ha riproposto quella suggestiva Ave Maria della tradizione sarda, che anche Nguyên Lê aveva utilizzato per la sigla che quest'anno apriva i concerti serali. Più tardi sono intervenute le eleganti acrobazie aeree della danzatrice Elena Annovi sullo sfondo di una cangiante grafica digitale e una coriacea musica elettronica.

Infine, fra le non secondarie iniziative collaterali, rimane da ricordare la mostra "Pier Paolo Pasolini -sulle ali della poesia": organizzata da Antonello Fresu e Giannella Demuro al Centro Laber nel quarantennale della scomparsa dello scrittore-regista, presentava una ricca varietà di documenti editoriali, fotografici e soprattutto video.

FotoRoberto Cifarelli.

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